La favola dei tre orticelli

C’era una volta…..

Anche questa favola, come tutte le favole che si rispettano, comincia così.

L’ho scovata in un vecchio baule relegato in soffitta, su una vecchia pergamena ingiallita e logora.

C’era una volta un orticello biologico. L’orticello era in un grande parco, vicino ad una casa bianca e a prendersene cura era un’energica signora, che ogni giorno controllava lo stato delle sue piante, le innaffiava amorevolmente e, quando era il momento, le coglieva per offrirle al marito e alle figlie sul grande tavolo posto in una stanza ovale, dalla quale si potevano vedere un grande viale e un lago artificiale.

La signora dell’orticello della casa bianca aveva suscitato le simpatie di tutte le signore bene del mondo, amanti della natura, le quali avevano costruito orticelli in giardino, sui balconi e sulle terrazze delle loro case urbane, dove coltivavano verdure biologiche nate da semi non geneticamente modificati, in barba alle cattive multinazionali.

L’orticello della casa bianca era divenuto il simbolo di un Eden mondiale di pace e di bontà: un mondo pulito, fatto di lattughe, di coccinelle, di uccellini cinguettanti, dove ognuno curava il proprio orticello.

Il marito della signora della casa bianca coltivava altri orticelli. Li chiamavano orticelli di guerra, ma lui aveva ricevuto, prima ancora di coltivare, il Nobel per la pace, così che la coltivazione degli orti potesse assomigliare a quella della moglie. Gli orticelli del marito si chiamavano “primavere”, “interventi umanitari”, “dissuasioni belliche”, “azioni deterrenti”. Per gli orticelli di guerra il marito della signora della casa bianca produceva sementi speciali: pistole, mitragliatrici, droni, aerei, mine, carri armati, elicotteri, ma lasciava poi la cura delle sementi ai giardinieri locali, perché i suoi orticelli, a differenza di quello della moglie, erano sparsi in tutti il mondo. Lui però, per tener fede al suo Nobel per la pace, sognava un orto grande, dove piantare sementi nuove, importanti.

In famiglia c’erano anche un nonno e una nonna e un prozio, che coltivava il sorosiano sogno della ultraglobalizzazione, concepito in un chalet di Davos. Vi ricordate Davos, il luogo della Montagna incantata, dove il protagonista del romanzo di Thomas Mann mangiava nella stessa sala delle “russe da bene” e delle “russe da poco” e si gongolava nella sua malattia, salvo poi essere trascinato nella realtà dallo scoppio della guerra mondiale? Ecco, dopo Davos c’è, come insegna Mann, una guerra mondiale. Un grande orto, dove piantare grandi sementi.

La famigliola della casa bianca aveva una nonna, un nonno e un prozio.

La nonna, il nonno e il prozio coltivavano orticelli finanziari.

La nonna e il nonno avevano una società di iniziative globali e, come Paperon de Paperoni, erano circondati da gold men: uomini d’oro, ma anche da bucanieri, come Morgan. I loro orticelli erano invisibili, non avevano zolle, non avevano bisogno di semi: producevano derivati e sub prime, strane verdure venefiche, vendute come farmaci. I loro orticelli producevano il nulla rivestito di cedole. Con i loro orticelli avevano avvelenato il mondo con tanto di quel veleno che nessuno sapeva più come sistemare le cose. Tuttavia un modo c’era. Un modo semplice. Scaricare tutte le sementi virtuali e i loro prodotti nell’orto del nipote, quello grande, che il nipote sognava, giusto per rendere onore al suo Nobel per la pace. L’operazione non sarebbe stata semplice, ma nel frattempo, l’orticello della signora della casa bianca avrebbe distratto l’attenzione. Le signore bene sarebbero state ecologicamente in pace.

Poi, come in molte favole, arrivò il lupo cattivo, dal nome inquietante: Trumpo, evocante le “trompe” del giudizio universale. Trumpo era un vero lupo mannaro. Assalì l’orticello ecologico. Distrusse gli orticelli di guerra, ma, soprattutto, infranse il grande sogno del grande orto.

Poi, giunse il giorno del Giudizio. Il lupo cattivo si trovò a fare i conti con gli orticelli finanziari, con il “Grande Veleno” sparso per il mondo, con gli uomini d’oro e con i bucanieri.

Qui, purtroppo, la narrazione si interrompe ……… . C’è solo una riga finale di difficile interpretazione. Pare che il lupo, in effetti, fosse un agnello travestitosi da lupo. Un’antica favola dice: “Superior stabat lupus, inferior agnus” e in quel caso la colpa di inquinare l’acqua fu attribuita all’agnus. Sapremo mai come finì la nostra storia? Il lupo vero, travestito da nonna, come nella favola di Cappuccetto rosso, è sempre bravissimo a trasferire le colpe all’agnus, ma non è detto che l’agnus sappia cambiare la favola. In fondo è solo una favola. E se l’agnus fosse il cacciatore?

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Giornalista
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