Rendere giustizia ai socialisti

Rendere giustizia ai socialisti non è solo un atto di onestà intellettuale; è un’operazione di restituzione all’Italia di una potenzialità riformatrice democratica che è stata immolata sull’altare dal disastroso connubio tra due integralismi: quello cattolico e quello comunista. Connubio del quale l’ircocervo Partito democratico è prodotto tragico per l’identità nazionale, come dimostra la posizione sui temi dell’immigrazione e per la sottomissione alle logiche del globalismo finanziario.

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La distruzione della Democrazia Cristiana è opera del bresciano Mino Martinazzoli, il cui pensiero enigmatico, in quanto sommatoria di infiniti aggettivi senza un sostantivo è, a noi comuni mortali, incomprensibile. Ci è invece chiaro che l’ultimo segretario della Dc l’ha affossata, acquisendo il plauso di chi già pensava alla nascita dell’ircocervo cattocomunista e lasciando il povero bergamasco Citaristi, tesoriere del partito, a fare i conti con la giustizia.

A distruggere il Psi, anche in omaggio a logiche atlantiche, si sono messi, con impegno da manuale, alcuni magistrati, sulla scia del testimonial di Mani Pulite, il magistrato Di Pietro, poi finito nelle secche della politica, dopo aver imbarcato e sterilizzato parte della sinistra antagonista, ben rappresentata dal bresciano Maurizio Zipponi.

Non va dimenticato che un altro bresciano, il socialista Sergio Moroni, autore di un lodo che pose fine alla vertenza tra i sindacati dei metalmeccanici di marca antagonista sabattiniana e le aziende di Luigi Lucchini, si è tolto la vita in seguito alle accuse mossegli nel quadro di inchieste giudiziarie relative alle sue cariche pubbliche in Regione Lombardia.

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La guerra aperta al riformismo, e conseguentemente ai socialisti, ha origini ben precedenti ai fatti di Mani Pulite e il cosiddetto “laboratorio bresciano”, dal punto di vista dell’analisi di alcuni passaggi della storia italiana recente, ha un’importanza strategica, anche se non ancora messa a fuoco, grazie anche alla glorificazione di alcuni personaggi che alla luce dei fatti si rivelano, a ben vedere, coautori della disfatta dei partiti storici e della fine della Prima Repubblica. Mi sto riferendo, per uscire dal vago, a Claudio Sabattini, la cui opera, dopo aver distrutto il “laboratorio bresciano” delle ampie intese di marca berlingueriana, ha radicalizzato il conflitto, alimentando la logica antagonista, fino a portare lo stesso Berlinguer a smentire tragicamente se stesso sui cancelli della Fiat.

La guerra totale a Craxi e ai riformisti del sindacato, compresi quelli comunisti, come Lama, ha incassato nel sindacato bresciano, guidato, prima direttamente e poi per interposte persone, da Claudio Sabattini, il perfetto accordo del radicalismo sindacale cattolico cislino. Accordo che ha fatto dell’esempio bresciano il paradigma per la radicalizzazione antagonista del sindacato in Italia. L’impresa non è del tutto riuscita, ma è stata esiziale per il sindacato, che ne è uscito a pezzi e per il riformismo, che è stato massacrato.

L’amico Alberto Panighetti, che si sta esercitando, con risultati interessanti, nella ricostruzione dell’esperimento bresciano, inteso come avanguardia delle “ampie intese”, dovrebbe, con la coerenza e con l’onestà intellettuale che gli è propria, anche affrontare finalmente la questione della presenza, non certo casuale, di Claudio Sabattini a Brescia e dell’alleanza da lui creata tra l’antagonismo comunista e l’antagonismo cattolico.

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Giorgio Benvenuto sa bene quanto fosse strategica la vicenda bresciana, visto che inviò il mio caro amico Pietro Imberti, allora giovanotto, a contrastare l’operazione Flm stile Sabattini, che tendeva a costituire non solo la quarta confederazione sindacale, mettendo in scacco Cgil, Cisl e Uil, ma anche un “partito” antagonista che condizionasse il Partito comunista e mettesse fuori gioco la Dc e il Psi.

Quell’alleanza sabattiniana tra antagonismo cattolico e antagonismo comunista non poteva che avere come nemico il riformismo laico e quello cattolico. Essendo il riformismo laico il più debole e vulnerabile, è stato questo la prima vittima sacrificale della strategia varata dal connubio tra i due integralismi. Nella fattispecie, il massacro del Psi ha fatto fallire l’operazione riformista del centro sinistra nel momento in cui era in atto il tentativo di allargare l’operazione ad un Partito comunista che aveva preso definitivamente le distanze dall’Unione Sovietica e guardava con interesse alle socialdemocrazie europee.

Una delle vicende più evidenti del tentativo di abbattere il riformismo fu quella degli autoconvocati, che nel 1984, ebbe il suo innesco a Brescia, per opera del radicalismo cattolico, seguito a ruota da quello comunista di marca sabattiniana. Divenuto movimento nazionale contro il decreto di San Valentino, varato dal Governo Craxi, il movimento degli autoconvocati portò, tuttavia, in seguito, alla sconfitta del sindacalismo radicale nel referendum del 9 giugno.

Il blocco del Giro d’Italia, connesso con la protesta degli autoconvocati, rivelò, e sarebbe una storia da rivedere con cura, per le sue implicazioni non solo nazionali, che dietro ai protagonisti c’erano manine interessate non propriamente sindacali.

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Brescia, da “laboratorio delle ampie intese” si è trasformata nel “laboratorio dell’antagonismo” funzionale alla disfatta del riformismo.

L’antagonismo di allora si alimentava delle teorie di alcune correnti del comunismo rivoluzionario, dell’operaismo e del sociologismo cattolico. Claudio Sabattini, come è noto, aveva come riferimenti il comunismo rivoluzionario di Rosa Luxemburg e di Karl Korsch e l’operaismo propugnato dai Quaderni Rossi di Panzieri e Tronti.

L’antagonismo di oggi, in mancanza dell’alimento comunista, finito in soffitta dopo il fallimento dell’Unione Sovietica e la trasformazione del comunismo cinese in capitalismo di stato, si alimenta con l’islamismo o con il gesuitismo comunista latino americano della teologia della liberazione.

Ironia della sorte (o conseguenza prevedibile?), l’alleanza antagonista che favorì la disfatta del riformismo ha dato spazio a formazioni politiche funzionali alle logiche globaliste del capitale finanziario.

Una grande responsabilità nel fallimento del riformismo è dovuta a Giorgio Napolitano, al tempo inutile guida della componente riformista del Pci.

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Il massacro del socialismo italiano ha indebolito, fino a renderla residuale e quasi inesistente l’area laica del nostro Paese e questo è un problema non solo politico. Un problema che investe l’elaborazione culturale, senza la quale la politica è sottoposta agli assalti predatori di poteri che con la democrazia nulla hanno a che fare.

Rendere giustizia ai socialisti, oggi, è non solo un atto dovuto, ma anche un importante contributo al mantenimento della democrazia in Italia, per contrastare derive totalitarie travestite da democraticismo cattocomunista e radical chic e l’affermarsi di ideologie derivanti dal gesuitismo comunista che sarebbero (sono) esiziali.

Silvano Danesi

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Giornalista
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