L’Europa en marche verso quella che profeticamente Benedetto XVI ha definito una “ragione finalmente arrivata a se stessa che intende emanciparsi da tutte le tradizioni e i valori culturali in favore di un’astratta razionalità”.
L’intervista di Francesco al Vatican Insider (La Stampa), rilanciata su tutti i giornali del gruppo Gedi (Repubblica, ecc.) mette a nudo un pezzo della filiera cino-sorosian-clintoniana.
Non è un caso che l’ex coordinatore di Vatican Isider (La Stampa), ossia Andrea Tornielli, sia stato chiamato da Francesco a coordinare i media vaticani.
Rispondendo alla domanda del giornalista su quali siano le sfide principali per l’Europa, che andrebbe riportata allo spirito dei Padri fondatori, risponde: «Una su tutte: il dialogo. Fra le parti, fra gli uomini. Il meccanismo mentale deve essere “prima l’Europa, poi ciascuno di noi”. Il “ciascuno di noi” non è secondario, è importante, ma conta più l’Europa. Nell’Unione europea ci si deve parlare, confrontare, conoscere. Invece a volte si vedono solo monologhi di compromesso. No: occorre anche l’ascolto».
Cosa vuol dire: “prima l’Europa, poi ciascuno di noi”? E che cosa vuol dire: il “ciascuno di noi” non è secondario, è importante, ma conta più l’Europa?
Siamo di fronte all’idea, davvero sconvolgente, di un Leviatano burocratico, che nulla ha a che fare con l’Europa dei padri e che sarebbe più importante di ognuno di noi.
L’UE di oggi è una costruzione sui generis: né confederazione, né federazione. È una entità sovrastatale alla quale gli Stati membri hanno concesso nel tempo sempre maggiori porzioni di sovranità, senza accompagnare la delega con la democrazia.
L’Unione Europea è, in termini di sovranità e di competenze, qualcosa di più di una confederazione e non è assolutamente una federazione. Sono gli Stati membri che determinano che cosa l’UE ha il diritto di fare e in che modo. Il popolo europeo non dispone al momento di alcun potere per quanto concerne le competenze dell’Unione. Non c’è un’elezione popolare che vada a decidere il governo e quindi che direzione deve prendere l’Europa. L’intermediazione del Parlamento europeo, unico organo eletto direttamente e democraticamente, non è sufficiente, per non dire impotente.
Qual è l’Europa che conta di più? Quella storica, quella delle radici o, come pare, quella guidata dalla Commissione?
Dietro al ragionamento di Francesco c’è l’idea di uno Stato etico rispetto al quale l’individuo conta poco, con l’aggravante che lo Stato etico, in questo caso è un moloch buro-finanziario dove dominano gli interessi trasversali di finanzieri e di filiere, non di Stati, non di nazioni, non di popoli.
Dovremmo inchinarci a Soros, o ai Rothschild? Dobbiamo inchinarci ad un’Europa che non ha una Costituzione?
La Costituzione europea, formalmente “Trattato che adotta una Costituzione europea per l’Europa” è stato un progetto di revisione dei trattati fondativi dell’Unione Europea redatto nel 2003 dalla Convenzione Europea e definitivamente abbandonato nel 2007, a seguito dello stop alle ratifiche imposto dalla vittoria del no ai referendum in Francia e nei Paesi Bassi (guarda caso!).
C’è chi vuole un esercito europeo, una polizia europea, e via discorrendo, ma tutto questo in assenza di una Costituzione, ossia di una Carta fondamentale a cui riferirsi.
E’ questa l’Europa alla quale dovremmo delegare le nostre identita?
Bergoglio passa poi a definire cosa sia il dialogo necessario, dicendo che: “Bisogna partire dalla propria identità” ed esemplifica: “Le faccio l’esempio del dialogo ecumenico: io non posso fare ecumenismo se non partendo dal mio essere cattolico, e l’altro che fa ecumenismo con me deve farlo da protestante, ortodosso… La propria identità non si negozia, si integra. Il problema delle esagerazioni è che si chiude la propria identità, non ci si apre. L’identità è una ricchezza – culturale, nazionale, storica, artistica – e ogni paese ha la propria, ma va integrata col dialogo. Questo è decisivo: dalla propria identità occorre aprirsi al dialogo per ricevere dalle identità degli altri qualcosa di più grande. Mai dimenticare che il tutto è superiore alla parte. La globalizzazione, l’unità non va concepita come una sfera, ma come un poliedro: ogni popolo conserva la propria identità nell’unità con gli altri”.
Un poliedro è fatto di tanti angoli riconoscibili, ossia di popoli diversi per storia e tradizioni e un “popolo europeo” ancora non c’è, se si vuol guardare alla realtà.
Se la propria identità non si negozia, ma si integra, è necessario in primis riconoscerla e Francesco d’Argentina dovrebbe sapere che i popoli europei sono stati fortemente divisi per secoli nelle loro identità nazionali e locali e che un “popolo europeo” non esiste, se non nei desideri, ma va nel tempo costruito, con pazienza e dialogo, non con forzature burocratiche e finanziarie. Il dialogo e l’integrazione sono possibili solo se le istituzioni europee sono democraticamente elette, se l’Europa ha una Carta costituzionale, se l’Europa ha un Governo che risponde al Parlamento. Così non è. E l’Europa di oggi non è nemmeno un insieme di Stati sovrani, in quanto parte della sovranità è stata delegata a istituzioni che progressivamente si sono affrancate dal controllo dei deleganti per diventare un moloch buro-finanziario.
Dopo che Alessandro il Macedone aveva aveva pensato a se stesso come un inviato da Dio a riconciliare il mondo, un semita di Cipro, Zenone di Citio, fondò lo stoicismo, che rese popolare l’idea che tutti gli uomini sono “cosmopolitai”, cittadini della stessa città, ossia il Cosmo, senza differenze di origine sociale e geografica. Citando Tarn (Hellenistic Civilisation), Mircea Eliade (Storia delle credenze e delle idee religiose, Bur), scrive: “Nel suo Stato ideale, Zenone presentava una speranza abbagliante che, dopo di allora, non ha più lasciato l’uomo; egli sognava un mondo non più diviso in Stati separati, che formerà una sola grande città, sotto una Legge divina, dove tutti i cittadini saranno uniti non da leggi umane, ma dal loro consenso volontario o, come dice Zenone, dall’Amore”.
Pensare che la Commissione Europea abbia oggi come Carta fondante l’Amore è pura follia.
Giovanni Paolo II nella sua Enciclica Fides et ratio scrive: “La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. E Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché,conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso (cfr Es 33, 18; Sal 27, 8-9; 63 [62], 2-3; Gv 14, 8; 1 Gv 3, 2)”. E aggiunge nel capitolo “Conosci te stesso”: “Sia in Oriente che in Occidente, è possibile ravvisare un cammino che, nel corso dei secoli, ha portato l’umanità a incontrarsi progressivamente con la verità e a confrontarsi con essa. E un cammino che s’è svolto — né poteva essere altrimenti — entro l’orizzonte dell’autocoscienza personale: più l’uomo conosce la realtà e il mondo e più conosce se stesso nella sua unicità, mentre gli diventa sempre più impellente la domanda sul senso delle cose e della sua stessa esistenza. Quanto viene a porsi come oggetto della nostra conoscenza diventa per ciò stesso parte della nostra vita. Il monito Conosci te stesso era scolpito sull’architrave del tempio di Delfi, a testimonianza di una verità basilare che deve essere assunta come regola minima da ogni uomo desideroso di distinguersi, in mezzo a tutto il creato, qualificandosi come « uomo » appunto in quanto « conoscitore di se stesso». Un semplice sguardo alla storia antica, d’altronde, mostra con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgano nello stesso tempo le domande di fondo che caratterizzano il percorso dell’esistenza umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita? Questi interrogativi sono presenti negli scritti sacri di Israele, ma compaiono anche nei Veda non meno che negli Avesta; li troviamo negli scritti di Confucio e Lao-Tze come pure nella predicazione dei Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad affiorare nei poemi di Omero e nelle tragedie di Euripide e Sofocle come pure nei trattati filosofici di Platone ed Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell’uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l’orientamento da imprimere all’esistenza. La Chiesa non è estranea, né può esserlo, a questo cammino di ricerca”.
Possiamo rispondere alla richiesta di senso con l’ideologia sorosiana o con il precipitare della teologia in politologia?
Nella Lectio magistralis “Fede, ragione e università – Ricordi e riflessioni”, tenuta il 12 settembre 2006 da Papa Benedetto XVI a Ratisbona, il Pontefice afferma: “La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: “In principio era il λόγος”. È questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco”.
Riassumendo il contenuto di alcuni frammenti eraclitei, Miroslav Marcovich, scrive che “a livello logico il lógos è valido universalmente e opera in tutte le cose” (114 + 2 DK), che “a livello ontologico, il lógos è un sostrato al di sotto della pluralità sensoriale delle cose: è una unità sottostante a questo ordinamento del mondo”; che “a livello epistemologico, riconoscere il lógos, è condizione necessaria per una reale e corretta conoscenza dell’ordinamento del mondo” (30DK) e, infine, che “a livello etico di comportamento, il lógos, è una regola di corretta condotta di vita (…)“.[1]
“Eraclito – ci ricorda Miroslav Marchovic – mostra il metodo per raggiungere il lógos: analizzando correttamente ciascuna cosa delle (due) parti che la costituiscono, ne risulterà una sorta di unità grazie al lógos universale”. [2]
Scrive Eraclito: “Le cose di cui c’è vista e udito e percezione queste in verità io preferisco” (fr.55DK) e aggiunge: “Gli occhi sono testimoni più fedeli degli orecchi” (Fr 101 a DK).
Tuttavia Eraclito ci avverte che: “Cattivi testimoni sono occhi ed orecchi per gli uomini, se questi hanno anime che non ne comprendono il linguaggio” (fr.107 DK) e che: “L’apprendere molte cose non insegna l’intelligenza; altrimenti l’avrebbe insegnato a Esiodo e Pitagora; e anche a Senofane e Ecateo”.
“La percezione sensibile e l’esperienza – commenta Miroslav Marchovic – richiamano la condizione basilare per l’apprendimento del lógos onnipresente, ma questa non è la sola condizione: altre ne sono richieste, fra cui l’intelligenza, la facoltà di interpretare correttamente i dati dell’esperienza e l’intuizione. Senza tali condizioni l’uomo non può raggiungere il lógos, né ottenere la sapienza (nous), rimanendo ad uno stadio sterile”. [3]
Benedetto XVI, nella Lectio magistralis, aggiunge: “In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall’insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo “Io sono”, il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all’interno dell’Antico Testamento, una nuova maturità durante l’esilio, dove il Dio d’Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: “Io sono”. Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell’uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l’adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l’epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la “Settanta” –, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall’intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire “con il logos” è contrario alla natura di Dio. Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa. Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall’inizio dell’età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica”.
Questa è l’idea di Europa di Benedetto XVI.
Le idee in “politichese” di Bergoglio sono davvero distanti da quelle di Benedetto XVI, nell’intervista realizzata nel 2012 da padre Germano Marani.“Santità – chiede Germano Marani -, Lei ha più volte ribadito che l’Europa ha avuto e ha tuttora un influsso culturale su tutto il genere umano e non può fare a meno di sentirsi particolarmente responsabile, non solo del proprio futuro, ma anche di quello dell’umanità intera. Guardando avanti, è possibile tratteggiare i contorni della testimonianza visibile dei cattolici e dei cristiani appartenenti alle Chiese ortodosse e protestanti, nell’Europa dall’Atlantico agli Urali, che, vivendo i valori evangelici in cui credono contribuiscano alla costruzione di un’Europa più fedele a Cristo, più accogliente, solidale, non solo custodendo l’eredità culturale e spirituale che li contraddistingue, ma anche nell’impegno a cercare vie nuove per affrontare le grandi sfide comuni che contrassegnano l’epoca post-moderna e multiculturale?
“Si tratta – risponde Benedetto XVI – della grande questione. È evidente che l’Europa ha anche oggi nel mondo un grande peso sia economico, sia culturale e intellettuale. E, in corrispondenza a questo peso, ha una grande responsabilità. Ma l’Europa deve, come Lei ha accennato, trovare ancora la sua piena identità per poter parlare e agire secondo la sua responsabilità. Il problema oggi non sono più, secondo me, le differenze nazionali. Si tratta di diversità che non sono più divisioni, grazie a Dio. Le nazioni rimangono, e nella loro diversità culturale, umana, temperamentale, sono una ricchezza che si completa e dà nascita ad una grande sinfonia di culture. Sono fondamentalmente una cultura comune. Il problema dell’Europa di trovare la sua identità mi sembra consistere nel fatto che in Europa oggi abbiamo due anime: un’anima è una ragione astratta, anti-storica, che intende dominare tutto perché si sente sopra tutte le culture. Una ragione finalmente arrivata a se stessa che intende emanciparsi da tutte le tradizioni e i valori culturali in favore di un’astratta razionalità. La prima sentenza di Strasburgo sul Crocifisso era un esempio di questa ragione astratta che vuole emanciparsi da tutte le tradizioni, dalla storia stessa. Ma così non si può vivere. Per di più, anche la “ragione pura” è condizionata da una determinata situazione storica, e solo in questo senso può esistere. L’altra anima è quella che possiamo chiamare cristiana, che si apre a tutto quello che è ragionevole, che ha essa stessa creato l’audacia della ragione e la libertà di una ragione critica, ma rimane ancorata alle radici che hanno dato origine a questa Europa, che l’hanno costruita nei grandi valori, nelle grandi intuizioni, nella visione della fede cristiana. Come Lei ha accennato, soprattutto nel dialogo ecumenico tra Chiesa cattolica, ortodossa, protestante, quest’anima deve trovare una comune espressione e deve poi incontrarsi con questa ragione astratta, cioè accettare e conservare la libertà critica della ragione rispetto a tutto quello che può fare e ha fatto, ma praticarla, concretizzarla nel fondamento, nella coesione con i grandi valori che ci ha dato il cristianesimo. Solo in questa sintesi l’Europa può avere il suo peso nel dialogo interculturale dell’umanità di oggi e di domani, perché una ragione che si è emancipata da tutte le culture non può entrare in un dialogo interculturale. Solo una ragione che ha un’identità storica e morale può anche parlare con gli altri, cercare una interculturalità nella quale tutti possono entrare e trovare una unità fondamentale dei valori che possono aprire le strade al futuro, a un nuovo umanesimo, che deve essere il nostro scopo. E per noi questo umanesimo cresce proprio dalla grande idea dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio.
Sempre Benedetto XVI, al Reichstag di Berlin, il 22 settembre 2011 disse: “A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico”.
Il riferimento di Benedetto XVI a “una ragione astratta, anti-storica, che intende dominare tutto perché si sente sopra tutte le culture, “a una “ragione finalmente arrivata a se stessa che intende emanciparsi da tutte le tradizioni e i valori culturali in favore di un’astratta razionalità”, è l’equivalente di una profezia. Il pensiero unico sorosian-davosiano, veicolato da una schiera di camerieri, è esattamente la “ragione finalmente arrivata a se stessa che intende emanciparsi da tutte le tradizioni e i valori culturali in favore di un’astratta razionalità”, una ragione che è della finanza mondialista, ossia quella che una filiera, ormai venuta allo scoperto, vorrebbe imporre sotto le finte spoglie del buonismo e del mondialismo accogliente.
Pare del tutto evidente che siamo, con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI, distanti anni luce dagli interventi politici di Bergoglio, il quale alla domanda di quali pericoli ravvisi nei sovranismi risponde. “Il sovranismo è un atteggiamento di isolamento. Sono preoccupato perché si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. “Prima noi. Noi… noi…”: sono pensieri che fanno paura. Il sovranismo è chiusura. Un paese deve essere sovrano, ma non chiuso. La sovranità va difesa, ma vanno protetti e promossi anche i rapporti con gli altri paesi, con la Comunità europea. Il sovranismo è un’esagerazione che finisce male sempre: porta alle guerre”.
E i populismi? “Stesso discorso. All’inizio faticavo a comprenderlo perché studiando Teologia ho approfondito il popolarismo, cioè la cultura del popolo: ma una cosa è che il popolo si esprima, un’altra è imporre al popolo l’atteggiamento populista. Il popolo è sovrano (ha un modo di pensare, di esprimersi e di sentire, di valutare), invece i populismi ci portano a sovranismi: quel suffisso, “ismi”, non fa mai bene”.
Premesso che anche il popolarismo è un “ismo”, forse in Bergoglio rimangono gli echi dell’Argentina peronista e di Videla, alla quale Francesco non era estraneo, data la sua vicinanza alla “Guardia de Hierro” di ispirazione nazista. Ma, evidentemente, la memoria è corta.
Bergoglio poi si scopre quando afferma che ci vuole creatività. Cosa è la creatività?
«Per esempio – afferma Bergoglio -, mi hanno raccontato che in un paese europeo ci sono cittadine semivuote a causa del calo demografico: si potrebbero trasferire lì alcune comunità di migranti, che tra l’altro sarebbero in grado di ravvivare l’economia della zona».
Esattamente quello che pensano Soros e compagnia, ossia la sostituzione etnica dell’Europa attuale.
L’impianto sorosiano è palese anche nella risposta alla domanda: “Intravede una qualche presa di coscienza sul tema ambiente e cambiamento climatico?
«Sì – risponde Bergoglio-, in particolare nei movimenti di giovani ecologisti, come quello guidato da Greta Thunberg, “Fridays for future”. Ho visto un loro cartello che mi ha colpito: “Il futuro siamo noi!”».
Il riferimento al “gretismo” è sostanzialmente un riferimento alle teorie sorosiane.
Forse non aveva tutti i torti Malachia di Armagh, il quale, secondo i testi pubblicati dal monaco benedettino Arnold de Wyon nel 1595, avrebbe profetizzato che il 111° ed ultimo Papa, “gloria olivae”, sarebbe stato Benedetto XVI.
Per chi vuole approfondire la profezia: https://www.antoniosocci.com/una-sorprendente-scoperta-sullantica-profezia-di-malachia-relativa-ai-papi-parla-dei-nostri-anni-facendo-i-nomi/
© Silvano Danesi
[1] Miroslav Marcovich, in Eraclito, testimonianze, imitazioni e frammenti, Bompiani
[2] Miroslav Marcovich, in Eraclito, testimonianze, imitazioni e frammenti, Bompiani
[3]Miroslav Marcovich, in Eraclito, testimonianze, imitazioni e frammenti, Bompiani