MOSSAD, UN ROMANZO MOZZAFIATO CHE NARRA LA GEOPOLITICA MEDIORIENTALE

Il numero magico di Mossad, il nuovo romanzo di Michael Sfaradi, è 536. La spiegazione è nei titoli di coda di un testo che scorre come un lungometraggio, dove cronaca e fiction si intrecciano fino a confondersi, catturando il lettore e trasportandolo in un’avventura che si svolge in territorio iraniano, dove il regime degli ayatollah sta costruendo il proprio arsenale atomico e in una Teheran che nel racconto mostra scampoli e nostalgie degli antichi fasti dell’impero persiano.

Nei titoli di coda, come nei film che si rispettano, troviamo il finale relativo ai protagonisti, con quello principale riservato al tema di fondo della narrazione: le prove che il Governo di Israele mostra al mondo sul pericolo incombente della bomba atomica iraniana in allestimento in laboratori segreti.

“Quando il 30 aprile 2018 il Premier israeliano Benjamin Netanyahu mostrò in diretta televisiva parte dell’archivio segreto relativo al nucleare iraniano, che agenti del Mossad avevano trafugato a Teheran e portato in Israele – si legge nel principale titolo di coda -, la stampa riportò che il peso totale della documentazione era di cinquecento chilogrammi. Nella realtà i cinquecento chilogrammi erano relativi al peso del solo materiale cartaceo, c’erano altri trentasei chilogrammi da conteggiare, si trattava di cd e memorie esterne”. Totale: 536.

La cronaca, riguardo a quella data, riporta che in diretta tv il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che “Teheran mente sfacciatamente sulle sue armi nucleari” e anzi “punta a dotarsi di almeno cinque ordigni nucleari analoghi a quelli utilizzati su Hiroshima”.

Netanyahu ha presentato quelle che ha definito “le nuove e conclusive prove del programma bellico nucleare iraniano, da anni nascosto alla comunità internazionale”.
Dalla sede del ministero della Difesa, a Tel Aviv, Netanyahu ha rivelato di essere in possesso di 55mila documenti e altri 55mila file su cd, “copia esatta degli originali provenienti dagli archivi segreti di Teheran”. Prove che confermerebbero l’esistenza del piano di riarmo nucleare dell’Iran, chiamato “Amad”. Il governo israeliano è entrato in possesso di tali informazioni e le ha condivise anche con gli Stati Uniti, che ne hanno garantito l’autenticità.
“Si tratta – ha detto Netanyahu – di uno dei maggiori successi di intelligence che Israele abbia mai conseguito” e, per questo motivo, il primo ministro israeliano ha chiesto al presidente americano Donald Trump di far saltare l’intesa raggiunta nel 2015.

Avvincente, ben congegnato, Mossad è una spy story che ci narra, in un a fiction dai molti tratti realistici, di come il Mossad abbia recupertao quei 536 chili di documentazione. Una spy story che si fa leggere d’un fiato, trasportando il lettore attraverso una fitta serie di colpi di scena sapientemente collegati dal filo narrativo.

Non mi avventuro nell’area della critica letteraria, non essendo altro che un normale lettore, se non per dire che se la lettura avanza veloce e senza intoppi è merito di una scrittura scorrevole, mentre credo di poter introdurre qualche riflessione riguardo a piani di lettura che Mossad offre,  proponendosi, ad un’attenta analisi, come un testo di testimonianza e di denuncia.

Pur nello scorrere la narrazione, seguendone i ritmi incalzanti, è necessario che il lettore ricordi che Michael Sfaradi è un giornalista d’inchiesta, attento ai segreti mondi dell’intelligence e della geopolitica, al fine non lasciarsi sfuggire i messaggi che il romanzo introduce e che, collegati nell’opportuna sequenza, ci danno un quadro puntuale dello scontro avvenuto e non terminato che si è svolto e si sta svolgendo in Medio Oriente, dove l’Iran lavora per diventare, a tutti gli effetti, una potenza nucleare.

Uno degli aspetti che affascina chi è attento al mondo dell’intelligence è la descrizione minuziosa, quasi fosse vissuta dall’interno e non da un narratore di una fiction, dei metodi, degli strumenti, delle strategie, dei rapporti gerarchici e umani che contraddistinguono l’operato del servizio segreto israeliano, divenuto un mito. Nel romanzo di Michael Sfaradi il Mossad, mantenendo intatti la mitica efficienza e il rigore, si umanizza. Nei rigidi protocolli si affacciano l’improvvisazione, l’intuito, la fragilità umana che comunque contraddistingue uomini e donne allenati alla perfezione dell’agire.

Nel romanzo è più volte ripetuto, come una sorta di mantra, che il Mossad è riconoscibile per la sua capacità di lasciar pulito, ossia senza alcuna traccia, ogni teatro della propria azione, quasi fosse una sorta di firma. Quando tutto è perfetto, lascia dire l’autore ai vari agenti segreti di altre nazioni, vuol dire che di lì è passato il Mossad.

Michael Sfaradi non lesina informazioni su armi, metodi, strumenti elettronici, protocolli d’azione e di comunicazione che alimentano un piano di lettura per appassionati delle spy story, ma i suoi protagonisti non sono mai dei James Bond: sono uomini e donne preparati da lunghi anni di allenamento e di tirocinio e, comunque, non scevri dalla paura, dalle tensioni emotive, dai sentimenti. Gli agenti del Mossad, nella narrazione di Sfaradi, sono essenzialmente dei professionisti, non dei fenomeni alla Jean Fleming.

Il piano di lettura che maggiormente mi interessa è quello della testimonianza e della denuncia, che fa del romanzo un documento politico attualissimo.

Non so se l’autore abbia pensato, nel dare un nome al faccendiere belga che costituisce il canale di esportazione in Iran di merci proibite, al suo possibile anagramma, ma André Van De Velde si trasforma in “vendeva dna del re”. Se mettiamo insieme l’origine belga, il suo mestiere di trafficante di ogni merce sotto embargo, ma utile all’Iran per fabbricare l’atomica e il possibile anagramma, ne esce una sorta di figura simbolica del centro di potere europeo, ossia Bruxelles,  sede dell’Ue, che vende il proprio dna, ossia la propria tecnologia più avanzata e strategica in cambio di commesse per le industrie di alcuni Paesi e di esportazioni sul mercato iraniano.

Sfaradi fa un elenco interessante di armi, automobili, camion, strumentazioni varie provenienti dalla Germania, dalla Francia e dall’Italia. In buona sostanza, i Paesi europei, in barba alle sanzioni, davano e danno all’Iran quanto serviva e serve al regime degli ayatollah.

Rimanendo nel simbolo, il faccendiere che vende il dna europeo all’Iran è un povero burattino, schiavo dei suoi vizi e di una sessualità morbosa, irretito da una novella Mata Hari dei servizi segreti tedeschi, che fa della Germania la testa pensante e il maggior general contractor dei rapporti obliqui con l’Iran.

Non mancano, qua e là, accenni alla Russia, alla Cina, agli Usa, ma il focus del mirino è concentrato sulla Germania, in quanto è la Germania, dominus dell’Ue, che conduce la danza dei rapporti segreti con l’Iran, consentendo lo sviluppo delle centrifughe di arricchimento dell’uranio ed evadendo le regole imposte dai trattati.

L’Europa segue a ruota, con le stesse modalità. Così è per la Francia, dove, ad esempio, i pezzi della Peugeot raggiungono l’Iran, per essere assemblati in loco con marchio di copertura. Così è per i furgoni e i camion italiani. Così è per i sofisticati cellulari Motorola.

Non mancano le accuse alla condotta molto poco amichevole degli Usa durante le amministrazioni Clinton e Obama.

Mentre sul palcoscenico si recitava la commedia dell’accordo e dei controlli dell’Aiea, dietro le quinte si allestivano i tavoli di trattative segrete, a proposito dei quali Michael Sfaradi scrive che “il Mossad, e con lui l’intero governo israeliano, non solo sapeva dell’esistenza di quei tavoli, ma era anche a conoscenza del punto in cui erano le trattative, e anche che godevano addirittura del beneplacito dell’amministrazione americana che, per la prima volta dall’era Nixon, si impegnava in Medio Oriente alle spalle di Gerusalemme.” In questa frase c’è il punto politico più importante in relazione all’attuale situazione di rapporti tra Usa e Israele. Nixon ha chiuso la sua esperienza nel 1974. Dopo di lui Ford, Carter, Reagan, Bush senior, Clinton, Bush junior, Obama e Trump. In pratica, tra Usa e Israele oltre 40 anni di rapporti altalenanti. Inoltre, chi guarda con attenzione alla geopolitica, si sarà accorto che tra Cia e Mossad, durante l’era Clinton – Obama i rapporti erano sostanzialmente sospesi. Gelo totale.

Trump è stato il presidente che, accogliendo l’appello di Netanyahu e interrompendo il gelo, ha maggiormente sostenuto Israele e la pace in Medio Oriente, ripristinando le alleanze con i Sunniti e iniziando una fase di apertura di rapporti tra Stati arabi e Tel Aviv, prodromica ad una pacificazione dell’area. Ovviamente tutto questo a discapito dell’Iran e degli sciiti e di chi dall’Iran dipende.

L’Europa nella narrazione di Mossad esce male; è vista e presentata in tutte le sue obliquità ed è stigmatizzata nella simbolica figura del personaggio che “vendeva dna del re”, debosciato e vile e, infine, prigioniero della sua pochezza.

© Silvano Danesi

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