E’ in atto, anche nei confronti della Massoneria, una vera e propria caccia alle streghe della Santa Inquisizione, oggi alleata delle tendenze sinistroidi radical chic e di una deriva antidemocratica cammuffata da democrazia diretta telematica.
La recente vicenda della Commissione antimafia ha messo in luce un grave pregiudizio nei confronti della Massoneria italiana, frutto di una incomprensibile e colpevole disinformazione.
Dietro alle quinte si muovono obbiettivi che tendono a riportare alla logica delle leggi fasciste del 1925 che, cominciando dalla Massoneria, vietarono l’associazionismo e la democrazia.
La democrazia del computer, contrabbandata per democrazia aperta al volere del popolo, punta a scardinare l’autentico esercizio democratico, così come è sancito nella Costituzione della Repubblica e come è stato voluto e costruito negli anni da illustri massoni, a cominciare dal bresciano Giuseppe Zanardelli, il quale, ministro della Giustizia nel ministero Crispi, fu autore del nuovo Codice penale, rimasto in vigore fino al 1931 e altamente avanzato per l’epoca, in quanto aboliva la pena di morte.
Mentre la Francia repubblicana mette la bara di un eroe, il colonnello e massone della Gran Loggia di Francia, Arnaud Beltrame, nel cortile d’onore de l’Hôtel National des Invalides, in Italia, per coprire l’insipienza dei una classe politica ridotta a livelli infimi, si attacca la Massoneria, additandola come colpevole di essere il potere occulto al quale accreditare ogni guaio, secondo una tecnica inquisitoria tipica delle peggiori dittature.
La Massoneria, lo ricordo a vantaggio di chi blatera senza aver mai aperto un libro di storia, è stata una indiscussa protagonista della storia dell’Italia unita.
Come ho scritto nel mio saggio: “La Massoneria lombarda”, “sul contributo della Massoneria, in quanto tale, non dei singoli massoni, al Risorgimento è aperta da tempo una discussione tra gli storici e tra gli stessi liberi muratori e le recenti celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia non hanno contribuito alla ricerca dell’obbiettività storica. La retorica unitaria, presente anche in molti convegni promossi dalle varie Obbedienze massoniche e orientata ad una sorta di appropriazione dei meriti di un periodo storico che, ben al di là dei suoi risultati finali, rimane controverso, ha oscurato alcuni elementi essenziali che, per quanto mi riguarda, mi portano a sostenere la tesi che la Massoneria in quanto tale non abbia dato un contributo significativo alla stagione risorgimentale, mentre un grande impegno è sicuramente riscontrabile nell’opera di molti massoni […]. “Occasionalmente – scrive in proposito il professor Franco Della Peruta, uno dei maggiori storici del Risorgimento e, se mi è consentita la nota personale, relatore al mio esame di laurea – viene riproposto il dibattito sulla presenza o meno della Massoneria nella Penisola come istituzione fra il 1855 e il 1860 e sulla sua partecipazione al processo risorgimentale. Nessun documento soddisfa in senso positivo ai due quesiti”.[i]
Anche l’atteggiamento dei massoni nei confronti del processo unitario o dell’idea stessa di Italia unita fu diverso e assai differenziato.
Per dare un primo sostegno a quanto ho asserito, propongo all’attenzione del lettore quanto sostenevano alcuni illustri protagonisti del Risorgimento come Carlo Cattaneo, Giuseppe Zanardelli, Arcangelo Ghisleri e Gabriele Rosa. Tre uomini che saranno, negli anni successivi all’unità del Paese, anche dei punti di riferimento per la Massoneria italiana.
“Da Romagnosi, che per primo elabora il concetto di Stati Uniti d’Europa – scrive Giuseppe Gangemi nell’introduzione al testo: Cattaneo-Ghisleri- Zanardelli, La linea lombarda del federalismo – si sviluppano tre filoni federalisti, più o meno consapevoli nei confronti della filosofia di Vico, che potremmo indicare in questo modo: la linea veneta del federalismo (attraverso il bresciano Andrea Zambelli, e l’influenza anche di Rosmini, si sviluppa l’insegnamento di Angelo Messedaglia che prosegue con Fedele Lamperico, Luigi Luzzatti, Emilio Morpurgo e Giuseppe Toniolo e si conclude con la grande lezione federalista di Silvio Trentin); la linea bresciana del federalismo (attraverso il bresciano Zambelli, si sviluppa l’azione politica di Giuseppe Zanardelli che non ha, tuttavia, continuatori); la linea lombarda del federalismo (attraverso Carlo Cattaneo e Arcangelo Ghisleri si sviluppa una concezione federalista dello Stato che influenzerà Filippo Turati, Leonida Bissolati e le prime organizzazioni radicali repubblicane e socialiste…)”.[ii] Tre filoni federalisti che, scrive ancora Cangemi, “si sono contrapposti, con diversa efficacia, all’influenza che ha avuto in Italia, come altrove, la tradizione statalista che va da Hobbes a Hegel e oltre”[iii] e che venne guidata dall’alto, prima dal massone Cavour e poi dai suoi successori.
Carlo Cattaneo, al quale i massoni dedicheranno nel tempo numerose logge, nel suo scritto del 1884: “La città considerata come principio delle istorie italiane”, ipotizza la centralità dei comuni, con città più vicine al concetto di regione statalizzata che a quello di Stato vero e proprio e propone, in base ad un diritto federale, come diritto dei popoli, una federazione intorno a regioni totalmente autonome tra loro, da configurarsi come veri e propri stati.
Giuseppe Zanardelli, nel suo: “Della storia dei feudi”, scrive che sono i comuni, piccoli e piccolissimi, ad essere i centri ideali intorno a cui costruire le federazioni. “Il fulcro delle autonomie federaliste – scrive Gangemi – rimane per Zanardelli l’individuo, la cui libertà egli non vede svilupparsi dalla città (cioè dalla borghesia) o dall’impero (cioè dall’aristocrazia feudale)”,[iv] ma dalla libertà economica, che nel Medioevo era la proprietà allodiale, deposta, nei secoli bui, nelle mani dei guerrieri, scambiando la sicurezza con la perdita della libertà.
Gabriele Rosa, altro grande protagonista lombardo della fase risorgimentale e della prima fase dell’Italia unita, che ritroveremo massone nella Loggia Arnaldo dopo l’annessione della Lombardia al Piemonte, fu un reduce dallo Spielberg che nel 1860 offerse a Lodovico Frapolli la prima candidatura al Parlamento.[v]
La vicenda umana, politica e culturale di Gabriele Rosa[vi] ha abbracciato quasi il corso di un secolo, snodandosi dagli anni delle cospirazioni fino alla crisi di fine Ottocento, quando nel contesto italiano parvero avere il sopravvento istanze reazionarie. Rosa appartenne quindi a due generazioni: a quella del federalismo risorgimentale – che ebbe in Carlo Cattaneo il suo più alto interprete, di cui il Rosa fu, con Alberto Mario e Mauro Macchi, uno dei più fedeli seguaci – e a quella repubblicana dell’Italia unita, che si apriva in taluni, sia pure in una declinazione eclettica e riformista, al socialismo.
Rosa fu cattaneano convinto quanto a concezioni politiche e ad orientamento degli studi. Reduce dai tre anni di carcere duro scontati nello Spielberg, entrato in contatto con Cattaneo grazie al suo saggio sulle miniere di ferro in Lombardia pubblicato sul “Politecnico”, egli aveva fatto parte di quella cerchia di intellettuali, frequentatori delle riunioni serali nella casa milanese del “gran lombardo”.
Nei primi decenni postunitari, insieme ad Agostino Bertani, Mauro Macchi, Alberto Mario, Rosa compose quella “pattuglia non troppo nutrita di ‘discepoli’ autonomisti e federalisti” dell’area democratico-repubblicana che si richiamava a Cattaneo nell’avversare l’unitarismo accentratore del nuovo Stato, aspirando a un ordinamento repubblicano federativo, imperniato sulla struttura elementare del Comune. Ispirandosi al modello statunitense e svizzero, e sensibile alle tradizioni repubblicane e federali radicate in Italia fin dall’età comunale, Gabriele Rosa individuava nel Comune, di “piccole dimensioni”, contrapposto quindi a quello più esteso della concezione mazziniana, il nucleo dell’autogoverno locale, e tale da garantire la “vita libera e commossa delle singole membra” della compagine statuale.
In questi protagonisti del Risorgimento è ben lontano il concetto di uno stato unitario italiano, ma ancora più chiaro è Arcangelo Ghisleri, il quale nel suo: “Lo stato italiano e il problema del decentramento”, scrive dell’arretrato e semifeudale Regno Piemontese. Un regno che non rispetta storia e cultura e autonomie territoriali dei territori conquistati. Ghisleri, citando Cattaneo, scrive: “Il Piemonte, affermando l’egemonia militare, doveva porsi in grado di procedere anche con l’egemonia civile. Ma gli uomini, che si fecero per dodici anni arbitri delle cose, paghi d’esercitare la potenza e non curanti di farsene strumento di progresso, si lasciarono sopraggiungere dagli eventi. Quindi la necessità d’applicare in fretta e furia i pieni poteri a riparare i danni dell’ostinata inerzia e di moltiplicare gli atti legislativi, intantoché non vi erano legislatori”.(Carlo Cattaneo, nella prefazione al vol. IX del Politecnico 1860 citato da Ghisleri).[vii] “Si allude – scrive ancora Ghisleri – con queste parole a quel vero colpo di Stato, perpetrato nel 1859 a danno e disdoro dei Lombardi, degli Emiliani, dei Toscani, nell’istante medesimo in cui queste generose popolazioni, vissute sino allora nella consuetudine delle loro naturali guarentigie amministrative, che neppure i rovesciati governi assoluti avevano mai abolite, per amore dell’unità proclamavano l’annessione al regno Sardo”.[viii]
Sorge un quesito: unità dell’Italia, che nei secoli non è mai stata uno stato unitario, se non al tempo dell’Impero romano, che guardava ben oltre i confini della penisola, o anschluss, come si direbbe oggi, dei territori italiani da parte del Regno piemontese, retto da una dinastia dai pochi pregi e dai molti difetti?
Un breve cenno ai fatti dell’epoca, rinviando ovviamente ai testi di storia del Risorgimento, dà l’idea di come il risultato di uno stato unitario sia stato, in gran parte, il frutto delle alchimie politiche di Francia e Inghilterra.
Successivamente all’incontro di Plombières con Napoleone III, il 21 e 22 luglio 1858 e dopo la firma del trattato di alleanza difensiva fra Francia e Regno di Sardegna del 26 gennaio 1859, Cavour, il 24 aprile 1859, riuscì a farsi dichiarare guerra dall’Austria, con inizio delle ostilità il 27 aprile. Alla fine della Seconda Guerra di Indipendenza, l’11 luglio, l’armistizio di Villafranca riconosceva al Regno di Sardegna la Lombardia (con l’esclusione di Mantova), ma non il Veneto, ceduto soltanto dopo la Terza Guerra d’Indipendenza.
Già dal maggio 1859 le popolazioni del Granducato di Toscana, della Legazione delle Romagne (Bologna e la Romagna), del Ducato di Modena e del Ducato di Parma avevano cacciato i propri sovrani e reclamavano l’annessione al Regno di Sardegna, soprattutto grazie, secondo l’opinione di alcuni storici, alla sapiente azione di agenti provocatori pilotati dal Governo piemontese.
Il 24 marzo 1860 Cavour sottoscrisse la cessione della Savoia e del circondario di Nizza alla Francia ed ottenne in cambio il consenso di Napoleone III all’annessione di Toscana ed Emilia-Romagna al Regno di Sardegna.
Nel marzo 1860, quindi, restavano in Italia tre soli Stati: il Regno di Sardegna, con Piemonte (inclusa Aosta), Liguria, Sardegna, Lombardia (eccetto Mantova), Emilia, Romagna e Toscana; lo Stato della Chiesa, con Umbria (inclusa Rieti), Marche, Lazio e le exclave di Pontecorvo e Benevento; il Regno delle Due Sicilie, con Abruzzo (inclusa Cittaducale), Molise, Campania (incluse Gaeta e Sora), Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia. A questi tre stati indipendenti va aggiunta la presenza dell’Impero Austriaco di Francesco Giuseppe, che ancora poteva essere considerato una potenza con forti interessi nella penisola italiana, poiché possedeva intere regioni come il Veneto, il Trentino e il Friuli, oltre al territorio mantovano. La Francia inoltre, da sempre alleata del papato, si trovava nell’ambiguo ruolo di potenza protettrice di Roma e di principale alleato del Regno di Sardegna. Un’ambiguità che permise a Napoleone III di mantenere una decisiva influenza sulle vicende italiane e che sarà derminante nel 1860. Napoleone III, difatti, impediva al Regno di Sardegna tanto un’azione contro l’Austria (col suo mancato sostegno), quanto un’azione contro Roma (con la sua esplicita opposizione). Restava, pertanto, ai piemontesi un unico bersaglio possibile: Napoli.
Il regno meridionale era ancora lo stato più esteso e, teoricamente, più potente della penisola. Poteva fare affidamento su un esercito (il più numeroso d’Italia) di 93 mila uomini (oltre a 4 reggimenti ausiliari di mercenari) e sulla flotta più potente di stanza nel Mediterraneo (11 moderne fregate, 5 corvette e 6 brigantini a vapore, oltre a vari tipi di navi a vela). Particolare importanza ebbe, per lo svolgersi degli avvenimenti successivi, nell’autunno-inverno del 1859 l’azione abbozzata da Francesco II, di concerto con Francesco Giuseppe, a sostegno delle rivendicazioni di Pio IX, di Leopoldo II di Toscana e dei Duchi di Modena e Parma per rientrare in possesso dei loro possedimenti in Italia centrale.
L’iniziativa si scontrava direttamente con gli interessi vitali di Torino e, di conseguenza, di Parigi, dal momento che Napoleone III, per giustificare la guerra all’Austria di fronte all’opinione pubblica francese, doveva annettere alla Francia i territori oggetto degli accordi di Plombières.
Nel corso degli anni vi erano state diverse ribellioni che i Borbone avevano dovuto sedare: la rivoluzione indipendentista siciliana del 1820, la rivoluzione calabrese del 1847, la rivoluzione indipendentista siciliana del 1848 e quella calabrese dello stesso anno, ed il movimento costituzionale napoletano del 1848.
Dal punto di vista militare, fondamentale era stata la vicinanza con l’Austria. Per due volte, infatti, i Borbone avevano riguadagnato il trono in seguito all’intervento degli eserciti austriaci.
L’unica delle forze opposte ai Borbone che mostrasse la volontà di scendere in armi, in quel 1860, era l’autonomismo siciliano. Molti dei quadri dirigenti della rivoluzione del 1848 (tra cui Francesco Crispi) erano espatriati a Torino e avevano maturato un atteggiamento politico decisamente liberale e unitario.
I fatti successivi sono noti e non ci dilunghiamo nel narrarli, ma è opportuno sottolineare come, durante l’impresa dei Mille, oltre alle navi piemontesi, altre imbarcazioni solcassero le acque del Tirreno: quelle inglesi. Il contrammiraglio George Rodney Mundy, vicecomandante della flotta mediterranea della Royal Navy, aveva ricevuto ordine, dal suo governo, di assumere il comando del grosso delle unità navali della sua flotta e di incrociare nel Tirreno e nel canale di Sicilia, effettuando frequenti scali nei porti delle Due Sicilie, oltre che a scopo intimidatorio e di raccolta di informazioni, anche al fine di attenuare la capacità di reazione borbonica e di assistere l’impresa. Lo sbarco dei garibaldini fu favorito, infatti, anche dalla presenza nel porto di Marsala di due navi da guerra della Royal Navy, giunte per proteggere le imprese inglesi della zona, come i magazzini vinicoli Woodhouse e Ingham. Presenza che finì per condizionare l’operato della Real Marina del Regno delle Due Sicilie ed il ritardo con cui le navi da guerra borboniche giunsero nelle acque marsalesi.
E’ evidente, da questi brevi cenni, che l’unificazione della penisola in uno stato unitario sotto la dinastia dei Savoia è stata il frutto sì di moti liberali, di moti di popolo, ma soprattutto di strategie internazionali, che hanno visto in campo gli interessi dell’Austria (alleata dei Borbone) e della Francia e dell’Inghilterra. Interessi che sono proseguiti negli anni e fino ai giorni nostri, con interventi obliqui e spesso segreti.
Anschluss, dunque, più che unificazione.
Dopo l’unificazione, la Massoneria italiana divenne instrumentum regni del neonato Regno d’Italia.
La politicizzazione della Massoneria italiana divenne un fatto costante ed evidente con l’avvento della Sinistra alla direzione dei governi del Regno, fino ad essere eclatante durante la gran maestranza di Adriano Lemmi e i governi del garibaldino Francesco Crispi. Lo strettissimo rapporto tra il Gran Maestro e il Fratello Crispi portò all’interno delle logge la discussione e la divisione e il Grande Oriente non fu in grado, per tutto il periodo, di mediare le due tendenze di fondo che si agitavano sotto la volta dei templi: quella democratica e socialista, interprete della piccola e media borghesia e dei ceti popolari e quella moderata e conservatrice. Le due tendenze ebbero anche una caratterizzazione territoriale e la Lombardia, come altre regioni del Nord, vide il prevalere di quella democratica, radicale, con un forte impegno di molti fratelli nell’area politica che venne denominata l’Estrema e nella costruzione della rappresentanza politica del nascente proletariato urbano e rurale.
Massoni furono Agostino Depretis e Francesco Crispi, ma anche l’anarchico Bakunin, Andrea Costa, prima anarchico e poi tra i fondatori del socialismo in Italia, il lodigiano Enrico Bignami, socialista e punto di riferimento per anni di Marx e di Engels in Italia, il filosofo Antonio Labriola, che fece conoscere agli italiani le teorie marxiste, con il suo famoso saggio del 1895 su : “La concezione materialistica della storia”.
Massone e Gran maestro fu Giuseppe Garibaldi. Massone fu l’operaista Mauro Macchi e probabilmente massone, anche se non esistono i documenti di affiliazione, fu il fondatore del Partito Socialista Italiano, Filippo Turati, che in ogni caso ebbe strettissime frequentazioni con la Famiglia, a cominciare da quelle con il Fratello Leonida Bissolati, suo compagno di studi a Bologna negli anni in cui dominava la figura intellettuale del Fratello Giosuè Carducci. Massone fu Osvaldo Gnocchi Viani, fondatore nel 1891, a Milano, della prima Camera del lavoro, sull’esempio delle francesi Bourse de Travail, studiate da Viani in un soggiorno in Francia, in occasione dei congressi operai del 1889.
Si può quindi affermare, senza azzardo, che l’elite intellettuale che diede vita al movimento operaio e lo diresse nelle sue prime battaglie fu formata da massoni o da uomini che alle idee massoniche si sentivano molto vicini.
I massoni furono promotori di molte società di mutuo soccorso, di cooperative, di scuole popolari e di giornali che si facevano interpreti delle esigenze e delle posizioni, politiche e ideali, di emancipazione delle classi meno abbienti e, in particolare, del proletariato delle città e delle campagne, nelle quali, con la concentrazione delle terre, si veniva formando un forte bracciantato. Vanno ricordati, nell’area massonica, il radicale Secolo di Milano, il più diffuso quotidiano del tempo, che raggiunse nel 1890 ben 100 mila copie, La Plebe del lodigiano Bignami, la Rivista repubblicana di Milano, fondata e diretta dal Fratello Arcangelo Ghisleri con l’appoggio del Fratello Alberto Mario, e la bergamasca Cuore e Critica, fondata sempre dal Ghisleri nel 1886, successivamente trasformata, con Turati, nella Critica Sociale, principale rivista del partito socialista.
La Massoneria, in questo caso lombarda, fu protagonista finanziaria, con la nascita della Comit e del Credito Italiano, di un cambio di alleanze che nell’ultima parte del secolo vide l’Italia schierarsi con la Germania e con l’Austria a scapito dello strettissimo rapporto, quasi di vassallaggio, che aveva avuto fino ad allora con la Francia. Massone era infatti Otto Joel, tedesco, ebreo e tessitore del rapporto, in gran parte costruito tramite i garanti d’amicizia con le Obbedienze tedesche ed austriache, che convogliò in Italia i capitali tedeschi e svizzeri che diedero vita al consorzio dal quale, nel 1894, nacque la Banca Commerciale Italiana, fondata a Milano il 10 di ottobre, con sede nel palazzo Brambilla e con primo presidente Alfonso Severino Vimercati, uomo dell’entourage crispino che si era fatto le ossa nel campo bancario dirigendo la Banca Popolare di Milano.
Il declino della Banca Romana e la nascita della Banca Commerciale Italiana furono due capisaldi della progressiva trasformazione di Milano nella capitale finanziaria ed economica del Paese, alter ego, spesso polemico, della capitale politica.
Nell’ottobre del 1859 la conquista della Lombardia era cosa fatta. Le imprese di Garibaldi nell’Italia meridionale nel 1860 e gli avvenimenti successivi, sui quali in questa sede ovviamente non ci diffondiamo, portarono alla proclamazione a Torino del Regno D’Italia, durante la solenne riunione, il 18 febbraio del 1861, del primo Parlamento italiano.
Sul finire dello stesso anno, dal 26 dicembre 1861 al primo gennaio 1862, nella capitale sabauda, divenuta capitale del Regno d’Italia, si tenne l’Assemblea costituente massonica per la fondazione del Grande Oriente Italiano, durante la quale il generale Garibaldi venne proclamato primo massone d’Italia.
La Massoneria, dunque, non ha gestito o diretto, come spesso si afferma, il Risorgimento, ma sicuramente ha gestito la costruzione dell’Italia unitaria.
E a questo proposito troviamo una testimonianza di un protagonista dell’Italia politica del Novecento: Antonio Gramsci, il quale, sia pure all’interno di un discorso critico nei confronti della borghesia e del capitalismo italiani, mette a nudo il significato delle leggi fasciste con le quali fu messa al bando la Massoneria. In un discorso alla Camera del 16 maggio 1925 che riporto di seguito, Gramsci mette in guardia da una deriva che poi si è dimostrata effettiva, ossia del come la messa al bando della Massoneria fosse il preludio alla messa al bando delle associazioni democratiche.
“Gramsci, Il disegno di legge contro le società segrete è stato presentato alla Camera come un disegno di legge contro la massoneria; esso è il primo atto reale del fascismo per affermare quella che il Partito fascista chiama la sua rivoluzione. Noi, come Partito comunista, vogliamo ricercare non solo il perché della presentazione del disegno di legge contro le organizzazioni in generale, ma anche il significato del perché il Partito fascista ha presentato questa legge come una legge rivolta prevalentemente contro la massoneria. Noi siamo tra i pochi che abbiano preso sul serio il fascismo, anche quando il fascismo sembrava fosse solamente una farsa sanguinosa, quando intorno al fascismo si ripetevano solo i luoghi comuni sulla “psicosi di guerra”, quando tutti i partiti cercavano di addormentare la popolazione lavoratrice presentando il fascismo come un fenomeno superficiale, di brevissima durata. […] Il problema è questo: la situazione del capitalismo in Italia si e rafforzata o si è indebolita dopo la guerra, col fenomeno fascista? Quali erano le debolezze della borghesia capitalistica italiana prima della guerra, debolezze che hanno portato alla creazione di quel determinato sistema politico-massonico che esisteva in Italia, che ha avuto il suo massimo sviluppo nel giolittismo? Le debolezze massime della vita nazionale italiana erano in primo luogo la mancanza di materie prime, cioè la impossibilità per la borghesia di creare in Italia una sua radice profonda nel paese e che potesse progressivamente svilupparsi, assorbendo la mano d’opera esuberante. In secondo luogo la mancanza di colonie legate alla madre patria, quindi la impossibilità per la borghesia di creare una aristocrazia operaia che permanentemente potesse essere alleata della borghesia stessa. Terzo, la questione meridionale, cioè la questione dei contadini, legata strettamente al problema della emigrazione, che è la prova della incapacità della borghesia italiana di mantenere… [Interruzioni).
Mussolini, presidente del Consiglio. Anche i tedeschi sono emigrati a milioni.
Gramsci. II significato dell’emigrazione in massa dei lavoratori è questo: il sistema capitalistico, che è il sistema predominante, non è in grado di dare il vitto, l’alloggio e i vestiti alla popolazione, e una parte non piccola di questa popolazione è costretta ad emigrare… Noi abbiamo una nostra concezione dell’imperialismo e del fenomeno coloniale, secondo la quale essi sono prima di tutto una esportazione di capitale finanziario. Finora l’imperialismo italiano è consistito solo in questo: che l’operaio italiano emigrato lavora per il profitto dei capitalisti degli altri paesi, cioè finora l’Italia è solo stata un mezzo dell’espansione del capitale finanziario non italiano. […] Voi vi sciacquate sempre la bocca con le affermazioni puerili di una pretesa superiorità demografica dell’Italia sugli altri paesi; voi dite sempre, per esempio, che l’Italia demograficamente è superiore alla Francia. E’ una questione questa che solo le statistiche possono risolvere perentoriamente e io qualche volta mi occupo di statistiche; ora una statistica pubblicata nel dopoguerra, mai smentita, e che non può esse- re smentita, afferma che l’Italia di prima della guerra, dal punto di vista demografico, si trovava già nella stessa situazione della Francia dopo la guerra; ciò è determinato dal fatto ché l’emigrazione allontana dal territorio nazionale una tal massa di popolazione maschile produttivamente attiva, che i rapporti demografici diventano catastrofici. Nel territorio nazionale rimangono vecchi, donne, bambini, invalidi, cioè la parte di popolazione passiva che grava sulla popolazione lavoratrice in una misura superiore a qualsiasi altro paese, anche alla Francia. È questa la debolezza fondamentale del sistema capitalistico italiano, per cui il capitalismo italiano è destinato a scomparire tanto più rapidamente quanto più il sistema capitalistico mondiale non funziona più per assorbire l’emigrazione italiana, per sfruttare il lavoro italiano, che il capitalismo nostrale è impotente a inquadrare. I partiti borghesi, la massoneria, come hanno cercato di risolvere questi problemi? Conosciamo nella storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia per risolvere la questione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolittiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di stabilire una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia settentrionale per opprimere, per soggiogare à questa formazione borghese-proletaria la massa dei contadini italiani specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto successo. Nell’Italia settentrionale si costituisce difatti una coalizione borghese-proletaria attraverso la collaborazione parlamentare e la politica dei lavori pubblici alle cooperative: nell’Italia meridionale si corrompe il ceto dirigente e si domina la massa coi mazzieri… [Interruzione del deputato Greco] Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l’aristocrazia operaia e i contadini poveri di tutta l’Italia. Abbiamo avuto il programma che possiamo dire del Corriere della Sera, giornale che rappresenta una forza non indifferente nella politica nazionale: ottocentomila lettori sono anch’essi un partito.
Mussolini . La metà! E poi i lettori dei giornali non contano. Non hanno mai fatto una rivoluzione. I lettori dei giornali hanno regolarmente torto!
Gramsci. Il Corriere della Sera non vuole fare la rivoluzione.
Farinacci. Neanche L’Unità!
Gramsci. Il Corriere della Sera ha sostenuto sistematicamente tutti gli uomini politici del Mezzogiorno, da Salandra ad Orlando, a Nitti, ad Amendola, di fronte alla soluzione giolittiana, oppressiva non solo di classi, ma addirittura di interi territori, come il Mezzogiorno e le isole, e perciò altrettanto pericolosa che l’attuale fascismo per la stessa unità materiale dello Stato italiano, il Corriere della Sera ha sostenuto sempre un’alleanza tra gli industriali del nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale sul terreno del libero scambio. L’una e l’altra soluzione tendevano essenzialmente a dare allo Stato italiano una più larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le “conquiste” del Risorgimento. Che cosa oppongono i fascisti a queste soluzioni? Essi oppongono oggi la legge cosiddetta contro la massoneria; essi dicono di volere così conquistare lo Stato. In realtà il fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia capitalistica avesse in Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La “rivoluzione” fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale […]”.
Antonio Gramsci, dal suo versante di critico radicale al sistema capitalistico, riconosce il ruolo essenziale della Massoneria nella costruzione dell’Italia unitaria e stigmatizza l’introduzione delle leggi liberticide del 1925 relative alla Massoneria in quanto prodromiche alla totale eliminazione della libertà e funzionali solo all’occupazione del potere.
La Massoneria italiana della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento non esiste più. Il Dopoguerra ha visto sulla scena della politica altri protagonisti e la Massoneria italiana ha subito una continua frammentazione, che la rende del tutto incapace di ogni possibile strategia politica.
Tuttavia, la Massoneria italiana, nelle sue componenti iniziatiche autentiche, non ha mai smesso di formare la coscienza di uomini e donne che nella società civile e nelle istituzioni possono dare il loro contributo.
Demonizzare uomini e donne per la loro appartenenza alla Massoneria è il portato di una mentalità fascista, stalinista, totalitaria, negatrice della libertà e, soprattutto, del libero pensiero, che è la massima caratteristica distintiva dell’autentico massone.
La massonofobia, alimentata ad arte, è l’anticamera di derive totalitarie che vanno denunciate come tali, a difesa non solo della libertà di associazione, ma della libertà in assoluto e della democrazia, quella autentica, che non è comprimibile in un server e non è comandabile da un software.
Silvano Danesi
[i] Franco Della Peruta, introduzione a: La Massoneria italiana nel decennio post unitario – Ludovico Frapolli Franco Angeli Editore
[ii] Cattaneo-Ghisleri-Zanardelli, La linea lombarda del federalismo, Gangemi editore
[iii] Cattaneo-Ghisleri-Zanardelli, La linea lombarda del federalismo, Gangemi editore
[iv] Cattaneo-Ghisleri-Zanardelli, La linea lombarda del federalismo, Gangemi editore
[v] Luigi Polo Fritz, op. cit.
[vi] Per le notizie sulla biografia di Gabriele Rosa vedi: Fondazione Bergamo nella storia – Piazza Mercato del Fieno – Bergamo
[vii] Cattaneo-Ghisleri-Zanardelli, La linea lombarda del federalismo, Gangemi editore
[viii] Cattaneo-Ghisleri-Zanardelli, La linea lombarda del federalismo, Gangemi editore