L’inno nazionale italiano, indicatoci in modo ossessivo come identitario, se identitario deve essere va anche compreso in quello che afferma sin dal suo incipit, che recita:
Fratelli d’Italia,
L’Italia s’è desta;
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma;
Che schiava di Roma
Iddio la creò.
Se è del tutto evidente che schiava di Roma non è l’Italia, ma la dèa Vittoria, lo è meno il fatto che l’elmo di Scipio, del quale il Bel Paese si è cinto la testa, è quello di Scipione l’Africano.
Per sapere chi è Scipio dobbiamo tornare a Publio Cornelio Scipione, proconsole della Repubblica romana, valente comandante dell’esercito. Al tempo, a contendere a Roma i suoi territori c’era un’altra potenza, Cartagine, e un altro condottiero, Annibale, che nel corso della Seconda guerra punica era giunto in Italia con gli elefanti e aveva sconfitto l’esercito romano nella battaglia di Canne. Scipione aveva studiato bene le mosse dell’avversario ed era pronto a una nuova battaglia, in Africa, a Zama. Stavolta la vittoria romana fu schiacciante. Scipione si guadagnò l’appellativo di “Africano”.
Roma affermò il suo dominio sul Mare Nostrum.
Visto che l’inno lo sentiamo e lo cantiamo in tutte le occasioni ufficiali, vuol dire che, stretti a coorte, ci cingiamo dell’elmo di Scipio. Se non è così, meglio cambiare inno, perchè dichiarare intenzioni senza essere conseguenti è quanto meno penoso.
Cosa c’entra l’inno nazionale con l’attuale situazione del Mediterraneo è presto detto.
Francia e Inghilterra, formalmente nostri alleati, hanno tentato e tentano in ogni modo di cacciarci dal Mediterraneo, salvo quando il Mare Nostrum serve come luogo tragico di transito di disperati e via privilegiata dei nuovi negrieri.
La Libia, in questo panorama, è la punta emergente di un neo colonialismo, in gran parte francese, che punta a dare all’area francofona uno sbocco al mare sul Mediterraneo, occupando, inoltre, una delle zone più ricche di fonti energetiche e di materie prime. Come ha scritto l’amico Piero Imberti, “la fascia del nord dell’Africa è uno dei luoghi più ricchi del pianeta e le primavere arabe e la politica […] ha trasformato un’area piena di «opportunità» in un vero e proprio inferno”.
La Francia, con il CFA, originariamente Franco delle colonie francesi e ora Comunità finanziaria africana, di fatto controlla il sistema monetario e finanziario dei seguenti paesi: Camerun, Ciad, Gabon, Guinea equatoriale, Repubblica centrafricana, Repubblica del Congo, Benin, Burkina Fasu, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal, Togo.
La maggior parte di questi paesi sono stati colonie francesi (con le eccezioni rappresentate dalla Guinea Equatoriale, ex-colonia spagnola, e la Guinea-Bissau, ex-colonia portoghese).
Alcuni di questi stati (Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo) sono riuniti nell’Unione economica e monetaria ovest-africana (UEMOA), mentre i restanti (Camerun, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Gabon, Guinea Equatoriale e Ciad) sono riuniti nella Comunitê economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC).
Le Isole Comore, nell’Oceano Indiano, sono associate al franco CFA, dentro la cosiddetta “zona franco” (franco comorano).
Il Franco CFA fu creato come il Franco CFP il 26 dicembre del 1945, al momento della ratifica da parte della Francia degli accordi di Bretton Woods. A quei tempi la sigla indicava il franco delle colonie francesi africane. Oggi la sigla indica: il franco della Comunità Finanziaria dell’Africa (XOF) nel caso dell’UEMOA, e il franco della Cooperazione Finanziaria dell’Africa Centrale (XAF) per il CEMAC.
L’esistenza di due nomi distinti evidenzia la divisione della zona in due: la prima ha come istituto di emissione la BCEAO (Banca centrale degli stati dell’Africa dell’Est), la seconda la BEAC (Banca degli stati dell’Africa centrale).
Il fatto è che le rispettive valute non sono intercambiabili e gli accordi che vincolano i due istituti centrali con le autorità francesi sono identici e prevedono le seguenti clausole: un tipo di cambio fissato alla divisa europea; piena convertibilità delle valute con l’euro garantita dal Tesoro francese; fondo comune di riserva di moneta estera a cui partecipano tutti i paesi del CFA (almeno il 65% delle posizioni in riserva depositate presso il Tesoro francese, che in tal modo si fa garante del cambio monetario); in contropartita alla convertibilità era prevista la partecipazione delle autoritê francesi nella definizione della politica monetaria della zona CFA.
Successivamente all’introduzione dell’euro, il valore del franco CFA è stato fissato alla nuova valuta, ma è comunque la Banca di Francia e non la Banca centrale europea che continua a garantire la convertibilità del franco CFA.
E’ del tutto evidente che dietro alla tecnicalità finanziaria si nasconde il neocolonialismo francese che, di fatto, controlla le economie dei paesi suddetti.
La Libia, ex colonia italiana, dopo la cacciata di re Idris dovuta al colpo di stato di Gheddafi, era tornata ad essere un paese che aveva come riferimento l’Italia e, soprattutto l’Eni.
I maggiori giacimenti di petrolio sono quelli di Mabrūk, Al Ḥufrah, Zalṭan, Ar Rāqūbah, Al-Bayḍā’, ‘Awrā’, Samāḥ, Waha, Jālū, Āmāl, Sarīr, Awjilah, Magid.
La rete degli oleodotti è molto estesa: un tratto di 175 km collega i pozzi di Zalṭan con il terminale di carico a Marsá al-Burayqah, sul golfo della Sirte; un altro tratto di 137 km convoglia a Sidra il petrolio dei pozzi di Al Ḥufrah; un oleodotto di 200 km immette nel tratto Zalṭan-Marsá al-Burayqah il petrolio estratto da Ar Rāqūbah; al terminale di Ra’s Lānūf fa capo l’oleodotto, alimentato dai giacimenti di Al Ḥufrah; e ‘Awrā’, collegato con i giacimenti di Al-Bayḍā’, Samāḥ, Waha, Jālū; altri oleodotti collegano il giacimento di Āmāl col terminale di Ra’s Lānūf, quello di Sarīr col terminale di Marsá al-Ḥarīqah, presso Tobruch, e quello di Awjilah col terminale di Az Zuwaytīnah.
Il sottosuolo contiene anche riserve di gas naturale (dal 2004 è attivo un gasdotto tra Libia e Italia che collega Mellitah a Gela), soda (laghi a est di Awbārī, nel Fezzan), minerali di ferro (nel Fezzan).
L’Italia, in questi anni, grazie anche alla fobia nucleare del Bel Paese, che avendo sbagliato la costruzione delle centrali nucleari esistenti le ha abbandonate, ha ignorato l’uranio che si trova nel suo deserto, vicino al Ciad, mentre i francesi ci stavano lavorando, visto che controllano già l’uranio del Ciad.
Inoltre la Libia è ricchissima di acqua, l’oro blu, un tesoro prezioso quanto il petrolio e che lo diverrà sempre di più nei prossimi decenni.
Nel sottosuolo libico c’è un mare di acqua dolce grande quanto la Germania, a una profondità tra i 600 e 100 metri; una riserva di oro blu grande almeno 35.000 chilometri cubici. Il tesoro fu scoperto negli anni ’50, nel corso di esplorazioni petrolifere. In seguito Gheddafi diede vita all’ambizioso e riuscito Libya Great Man Made River Project, il fiume artificiale sotterraneo più grande del mondo.
Nel 1983 Gheddafi ha creato un Ente con la missione di realizzare il “più grande fiume sotterraneo”, prelevando l’acqua nelle falde del deserto per immetterla in grandi condutture sotterranea e portarla verso la costa. Anni dopo l’acqua dolce è arrivata a Bengasi e Tripoli, e la Libia (con l’aiuto di giapponesi e coreani) è diventata un’autorità nel campo dell’ingegneria idraulica. Noi dove eravamo?
Questa immensa riserva, se sfruttata con le tecniche israeliane del Negev, potrebbe rendere fertili 130.000 ettari della Cirenaica, trasformandola in una pianura padana in grado di esportare prodotti agricoli in Africa ed Europa.
La Libia è tutto questo, ma anche la porta dell’Africa sul Mediterraneo. Una porta che interessa molto ai francesi e non solo a loro.
E allora, visto che siamo in Libia dal 1911, dopo aver strappato Cirenaica e Tripolitania all’Impero Turco, visto che la cacciata di re Idris fu predisposta con Gheddafi a Montegrotto Terme, visto che con Gheddafi l’Italia ha avuto ottimi rapporti, salvo quando una mai sufficientemente esecrata colpevole masochistica alleanza con francesi e inglesi ha visto l’Italia collaborare a uccidere il dittatore, perché non metterci finalmente l’elmo di Scipio e dire a inglesi e francesi che stiano fuori dalle scatole? Perché non essere finalmente fieri delle iniziative dell’Eni che non solo ci procurano l’energia per la nostra economia, ma ci danno una delle poche fonti di tecnologia avanzata rimaste al Bel Paese?
Non si tratta di mettere l’elmo di Scipio per fare i colonialisti, ma per essere partner di una nazione, composita, scambiando energia in cambio di risorse capaci di far evolvere la Libia. Non si tratta di tornare a “Tripoli bel suol d’amore”, ma di dire finalmente a francesi e inglesi che anche l’Italia ha i suoi interessi e li vuole difendere. Mussolini, per aver voluto le colonie, è stato defenestrato da un colpo di stato orchestrato dagli inglesi. Mattei è stato assassinato per aver voluto l’Eni. Dopo settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale è ora di essere protagonisti e non schiavi, altimenti funziona benissimo la parte dell’inno che recita: “Noi fummo da secoli calpesti, derisi”. Vogliamo esserlo ancora?
Silvano Danesi
Nella cartina una Libia porta dei paesi dell’area della Comunità finanziaria africana controllata dai francesi se fosse controllata dagli stessi. L’Eni e gli interessi dell’Italia sarebbero rapidamente messi da parte.